Keiji Haino

Ultimo aggiornamento: precedente al 2019
Apparenze da rockstar: chitarra al collo, capelli lunghi e immancabili occhiali scuri. Ma Keiji Haino, in attività da quasi 40 anni, rockstar non lo è affatto. Anche perché la musica di cui è artefice provoca e addirittura intimorisce l’ascoltatore, anziché compiacerlo, ruvida e caotica com’è. Un muro del suono che qualcuno ha definito “di proporzioni wagneriane”. Haino stesso considera del resto lo strumento “un’arma per esprimersi”. E imbracciandolo si avventura in audaci esplorazioni del rumore elettrico, che pur nascendo in alveo rock si manifestano formalmente – a partire dall’approccio improvvisativo – con caratteristiche tipiche del free jazz. Per lui più che per qualsiasi altro musicista connazionale si addice allora il neologismo japanoise. Il selvaggio temperamento espressivo del personaggio ha a che fare con i primi passi compiuti in ambito artistico, quando nei tardi anni Sessanta, Haino si misurava con i canoni del “teatro della crudeltà” di Antonin Artaud. La musica arrivò dopo, al suono – parole sue – di When The Music’s Over dei Doors e con la successiva scoperta del blues: punti di partenza di un percorso durevole e complesso, che l’ha visto animare un’infinità di progetti diversi (di tutti il più noto e longevo è un trio chiamato Fushitsusha) e pubblicare dischi a decine, intercettando cammin facendo le traiettorie di figure altrettanto radicali, da John Zorn a Derek Bailey. Un cursus honorum tracciato nei meandri del sottobosco dove albergano le avanguardie, tale da renderlo a lungo andare artista di culto: sconosciuto ai più ma venerato dai seguaci. A conti fatti, il modo migliore per esporsi al suo talento scabroso è ammirarlo – come capita appunto a MITO – nelle esibizioni da solista, in cui alla proverbiale bellicosità chitarristica associa l’uso della voce, incline più all’urlo o al mugolio che al canto vero e proprio. Eppure, a tratti, dal caotico maelstrom rumorista affiorano relitti melodici che potrebbero anche essere canzoni (non a caso insieme a Charlie Parker, Syd Barrett e Iannis Xenakis, Haino cita fra le proprie fonti d’ispirazione Marlene Dietrich). Assistere a un suo show significa dunque seguirlo in un’immersione dentro ciò che Conrad chiamerebbe “cuore di tenebra”, tentando magari di coglierne l’inopinato intento spirituale. Haino sostiene infatti di mirare in quel modo a un effetto catartico, alludendo alla condizione, detta satori nel buddhismo zen. Alberto Campo